tel. +39 0431 370273 – info@teatropasolini.it
Venerdì 28 febbraio 2025 _ ore 20.45
di e con Davide Enia
musiche originali ed eseguite da Giulio Barocchieri
luci Paolo Casati
suono Francesco Vitaliti
una co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi
con il patrocinio della Fondazione Falcone
Dopo il debutto accolto con standing ovation a ogni replica al Festival dei Due Mondi di Spoleto, Davide Enia palermitano, scrittore, drammaturgo, interprete e regista, artista dal 2024 in produzione al CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, porta in tournée Autoritratto, frutto di una coproduzione CSS, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Festival dei Due Mondi con il patrocinio della Fondazione Falcone.
19 luglio 1992. Cinquantasette giorni dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, un’autobomba esplode in via D’Amelio, muoiono il giudice Paolo Borsellino e i cinque membri della scorta.
A 32 anni dalle stragi mafiose, Davide Enia racconta l’impatto di Cosa Nostra sulla nostra vita di persone, di cittadine e cittadini e traccia «un Autoritratto intimo e collettivo» di una comunità costretta a convivere con la continua epifania del male.
Intrecciando cunto e parole, corpo e dialetto, usando gli strumenti che il vocabolario teatrale ha costruito nella sua Palermo, Autoritratto esplora il rapporto nevrotico con Cosa Nostra e il suo devastante impatto emotivo nella vita di ognuno. Autoritratto è una tragedia, un memoriale, un’orazione civile, una interrogazione linguistica, un processo di analisi personale e condiviso, e quindi al contempo intimo e collettivo.
“Io non ho nessun ricordo del 23 maggio 1992. Non ricordo dove fossi, con chi, quando e dove ho appreso la notizia della bomba in autostrada che ha ucciso il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e alcuni agenti della scorta. I miei parenti, i miei amici, i miei compagni, tutte le persone che conosco hanno un chiaro ricordo di quel giorno. Io ho un vuoto che non si riempie. Le mie difese emotive hanno operato una rimozione tanto profonda quanto dolorosa. Ma non è la rimozione uno degli effetti della nevrosi? In Sicilia praticamente tutti abbiamo avuto, almeno fino alle stragi, un rapporto di pura nevrosi con Cosa Nostra. È un discorso che ha a che fare con la coscienza collettiva condivisa, con la pratica del quotidiano, con strutture di pensiero millenarie. Per diverse ragioni, da noi la mafia è stata minimizzata, sottostimata, banalizzata, rimossa o, al contrario, mitizzata. Ovvero: non è mai stata affrontata per quello che è. E, a questo sfocamento dell’oggetto da studiare, è corrisposta una inconscia introiezione di quelle identiche modalità di comportamento, stesse pratiche, simili scatti emotivi. Per uno sguardo che indugia su un particolare, a Palermo può partire un aggàddo, una rissa. Il padre che impone al figlio l’iscrizione a una data facoltà universitaria moltiplica la logica del patriarca cui si deve obbedire. La difficoltà di nominazione del desiderio e la conseguente consegna alla dittatura del silenzio rende la logica del Potere pronta ad aggredire e a imporsi con maggiore facilità. Questo è quindi uno dei problemi che abbiamo con Cosa Nostra: in una maniera dolorosa e sconcertante, a volte la mafia rappresenta uno specchio della nostra vita familiare, dei nostri processi decisionali e operativi, del nostro modo di osservare il mondo e intendere le relazioni, del nostro rapporto con la religione. Sono tutte operazioni che scavano a livello inconscio, e che proprio nella comune base linguistica creano le prime cicatrici emotive. In una culla culturale in cui «’a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice”», la miglior parola è quella non detta, che si configura come prima soglia dell’omertà, affrontare per davvero Cosa Nostra significa iniziare un processo di autoanalisi. Non volere quindi capire in assoluto la mafia in sé, quanto cercare di comprendere la mafia in me. Questo assunto configura così una necessaria intelaiatura biografica nella costruzione del testo. A Palermo tutti quanti abbiamo pochissimi gradi di separazione con Cosa Nostra. Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, tornando a casa da scuola. Conoscevo il giudice Borsellino, abitava di fronte casa nostra, sono cresciuto giocando a calcio con suo figlio. E padre Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia, era il mio professore di religione al liceo. Come me, i miei amici, i miei compagni, i miei concittadini, tutti quanti abbiamo toccato con mano la mafia. Tutti possediamo una costellazione del lutto in cui le stelle sono persone ammazzate da Cosa Nostra.
Ecco una costante dei palermitani: sentirsi ovunque costantemente in pericolo. La nevrosi è inscritta nel nostro orizzonte degli eventi.
Lo spettacolo poi prenderà in esame un caso particolare, un vero e proprio spartiacque nella coscienza collettiva: il rapimento e l’omicidio di Giuseppe di Matteo, il bambino figlio di un collaboratore di giustizia, rapito, tenuto per 778 giorni in prigionia in condizioni spaventose e infine ucciso per strangolamento per poi venire sciolto nell’acido. Una storia disumana che si configura come l’apparizione del male, il sacro nella sua declinazione di tenebra. Siamo in presenza dell’orrore, di una ferocia smisurata, di una linea di azioni così abiette da essere impossibile ogni aggettivazione. E su tutto vibra il sacrificio di una vittima innocente. La verticalità della vicenda ha in sé tutti i requisiti della tragedia, soprattutto nella formulazione di domande che non possono avere risposte. Gli strumenti linguistici a disposizione per affrontare questo lavoro sono quelli che il vocabolario teatrale ha costruito nella mia Palermo: il corpo, il canto, il dialetto, il pupo, la recitazione, il cunto. È dentro questo linguaggio circoscritto che questo problema linguistico va affrontato, sviscerato, interrogato, risolto.
Questo nuovo lavoro è una tragedia, una orazione civile, un processo di autoanalisi personale e condiviso, un confronto con lo Stato, una serie di domande a Dio in persona.
Lo spazio scenico così non può che essere il teatro vuoto: via le quinte, via i fondali, via tutto. Resta la nudità di una struttura eletta come luogo della rappresentazione. Il teatro svuotato diventa così il correlativo oggettivo dell’inconscio, sia individuale che collettivo. Le mura, le assi, i pilastri diventano il fondo su cui si depositano le ferite, i traumi, le vergogne, le rimozioni.
Lo spazio vuoto apre all’evocazione del tempo della memoria, sia del singolo che della comunità. È il campo di forza in cui è possibile ricostruire un immaginario, risignificando lo spazio, lo sguardo, il silenzio, la parola.
Per questo, questo rituale è un autoritratto al contempo intimo e collettivo”.
Davide Enia
durata: 90 minuti
Ascolta l’intervista di Miriam Mauti a Davide Enia su Prima fila – Rai Radio 1, 30 novembre 2024